Ansia e depressione sono fra le conseguenze più pesanti della pandemia. Oltre il 40% degli italiani ha infatti riportato un peggioramento dei sintomi ansiosi e depressivi durante il lockdown nazionale dello scorso anno, con una riduzione della qualità di vita in più del 60% dei soggetti e ripercussioni sul ritmo sonno-veglia in più del 30%, come riporta l'Agenzia Ansa.
È quanto emerge dal primo studio condotto in Italia su un campione rappresentativo della popolazione adulta, frutto del lavoro di psichiatri, esperti di sanità pubblica e biostatistici dell'Istituto Superiore di Sanità, delle Università di Genova e di Pavia, dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, presentato lo scorso 21 giugno.
Lo studio, pubblicato sul Journal of Affective Disorders, si basa "su un campione rappresentativo di oltre 6.000 soggetti che stiamo seguendo nel tempo - precisa Silvano Gallus, ricercatore del Mario Negri e coordinatore del consorzio di ricerca - che ci permetteranno di analizzare come gli stili di vita e la salute mentale degli italiani si siano modificate e si stiano modificando nel tempo, a seguito delle restrizioni imposte per il controllo della pandemia da Covid-19".
Più vulnerabili, le donne: circa la metà delle donne italiane ha riportato un peggioramento del benessere psichico con un rischio di peggioramento delle depressione e di sintomi di alterazione della qualità del sonno, rispettivamente del 32% e 63% maggiore rispetto agli uomini.
"I dati in nostro possesso sono molto solidi e parlano chiaro - commenta Andrea Amerio, ricercatore psichiatra dell'Università di Genova e primo autore dello studio - L'utilizzo di psicofarmaci, prevalentemente ansiolitici, è aumentato del 20% rispetto al periodo pre-lockdown e tutti gli indicatori di salute mentale sono peggiorati".
"Le analisi già condotte - afferma Roberta Pacifici dell'Istituto Superiore di Sanità - hanno misurato come la distribuzione di alcuni fattori di rischio comportamentali quali fumo, gioco d'azzardo e altre dipendenze sia stata influenzata dal contesto emergenziale che abbiamo vissuto e di come sia fondamentale intervenire con azioni mirate di prevenzione primaria".
In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) e l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) hanno firmato un protocollo d'intesa per potenziare la tutela della salute di minori, donne e famiglie con background migratorio.
L'accordo tra Unicef e INMP punta a:
I bambini e adolescenti rifugiati e migranti e le loro famiglie corrono spesso maggiori rischi per la salute e devono affrontare una serie di ostacoli per accedere a un’assistenza sanitaria di qualità. Molti vivono anche gravi difficoltà emotive dovute al trauma del viaggio e, molte volte, ad abusi e sfruttamento, compresa la violenza sessuale e di genere. La pandemia globale da COVID-19 ha inoltre aggravato ulteriormente queste sfide.
È necessario "far sì che il loro diritto alla salute sia garantito - ha affermato Anna Riatti, coordinatrice UNICEF - anche dando loro accesso a informazioni e servizi di qualità per affrontare il loro percorso nel modo più sicuro possibile. La questione diventa ancora più rilevante se si considerano gli effetti che la pandemia ha sulla salute mentale e sul rischio di violenza di genere”.
L'intesa ha quindi come obiettivo "un equo accesso alla salute da parte di persone altamente a rischio di esclusione sociale, con possibili gravi conseguenze sulla loro salute ma anche con una ricaduta negativa sull’intera società - come ha spiegato la direttore generale INMP, Concetta Mirisola - Quando si tratta di giovani, in particolare, le conseguenze si perpetuano nel tempo, con costi incalcolabili di tipo economico ma anche, e soprattutto, di tipo sociale, e questo non è accettabile”.
Fondazione Di Liegro: sosteniamo e diamo dignità a persone esposte alla solitudine e all’abbandono.
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Al via una ricerca sulla salute mentale dei minorenni ai tempi del Covid-19 promossa dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e il Ministero dell’istruzione. Si tratta della prima iniziativa a carattere scientifico su scala nazionale di durata triennale con tre step intermedi che mira a offrire un quadro esaustivo e rappresentativo della situazione.
È previsto uno studio epidemiologico a carattere campionario che coinvolgerà fino a 7.500 minorenni suddivisi in tre fasce di età: 6-10, 11-13 e 14-18 anni. Sarà garantita un’adeguata rappresentatività di scuole rurali e urbane di Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Stamattina si è insediato il comitato scientifico del progetto. Nella cabina di regia è coinvolto anche il Ministero dell’istruzione.
Saranno raccolte le buone pratiche sperimentate per la sensibilizzazione dei genitori e della popolazione nonché le strategie per la promozione della salute mentale nelle scuole. Nel report finale saranno inserite le raccomandazioni dell’Autorità garante a Governo e altre istituzioni per dare una risposta a un problema che si presenta con caratteristiche preoccupanti.
“Sono arrivati numerosi segnali d’allarme a proposito di casi di disagio, autolesionismo, disturbi alimentari scorretti, dipendenze da alcol o droghe fra i minorenni, provenienti spesso da alcuni dei principali reparti di neuropsichiatria infantile italiani, che impongono un approfondimento. Questo progetto vuol comprendere in maniera scientifica quanto sia esteso e profondo il fenomeno e capire in generale cosa si può fare per affrontarlo efficacemente” osserva l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti.
L’Autorità promuove l’attuazione della Convenzione di New York e degli altri strumenti internazionali in materia di promozione e di tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, la piena applicazione della normativa europea e nazionale vigente in materia di promozione della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, nonché del diritto dei minorenni ad essere accolti ed educati prioritariamente nella propria famiglia e, se necessario, in un altro ambito familiare di appoggio o sostitutivo. È un organo monocratico, dotata di poteri autonomi di organizzazione e indipendenza amministrativa e senza vincoli di subordinazione gerarchica.
Dal sito dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza
"Ogni anno sono circa 650.000 i ricorsi al pronto soccorso per motivi psichiatrici. È evidente che sarebbe impossibile immaginare un numero equivalente di persone da sottoporre a stretta vigilanza per eventuali comportamenti violenti, ma di certo c'è da interrogarsi sulle connessioni che possono esistere tra questo primo presidio di intervento sanitario e i percorsi attivati successivamente". Come riporta l'Agenzia Dire, a sostenerlo è Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep), intervenuto nei giorni scorsi ai microfoni di Radio24 per riflettere sulla condizione della salute mentale in Italia. Una riflessione che prende spunto dal triplice omicidio avvenuto ad Ardea, domenica scorsa, in cui due bambini e un anziano sono rimasti vittime dei colpi di pistola esplosi da un 34enne con problemi psichici.
"Le disuguaglianze territoriali nel nostro Paese sono marcatissime e addirittura intollerabili - ha aggiunto Starace - specie quando si considera che l'assistenza psichiatrica non è come un intervento chirurgico del quale una persona può fruire spostandosi da una regione all'altra e andando in un centro di eccellenza. È un'assistenza che si fonda nella comunità di riferimento, volta al reinserimento, alla reinclusione".
Il problema è "una malintesa percezione della psichiatria che - ha spiegato ancora il presidente Siep - continua a essere considerata in termini prestazionali, ossia di visita ambulatoriale, elicitazione di sintomi ed eventuale somministrazione di uno psicofarmaco. Ma questa non è la salute mentale di comunità prevista dalla norma, unico strumento utile per accompagnare e sostenere le persone in difficoltà ma anche per prevenire condizioni estreme ed esacerbazioni comportamentali". Basti pensare che "anche dopo un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) non c'è continuità della cura - ha aggiunto Starace- solo il 30% delle persone a cui viene fatto un TSO viene visto nei 14 giorni successivi alla dimissione di un ricovero. Probabilmente per problemi di dotazione e organizzazione nei vari territori".
Una fotografia in bianco e nero quella della salute mentale italiana quella scattata da Starace. Ma che potrebbe colorarsi con l'aiuto del Recovery fund. "Se facessimo un salto in avanti di 6-7 anni e ci trovassimo già nelle condizioni previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, con case di comunità e centri dove gruppi di medici di medicina generale si alternano a gruppi di medici della continuità assistenziale, avendo la possibilità di intercettare loro stessi le condizioni di disagio e di dare continuità al trattamento - ha affermato - allora evidentemente i fatti di Ardea avrebbero assunto altre caratteristiche".
Quali strumenti è necessario mettere in campo? "Quelli previsti dalla norma, prima ancora che nel Pnrr - ha aggiunto Starace - quelli che prevedono Centri di Salute Mentale diffusi su tutto il territorio, aperti h24 in modo da poter intercettare queste forme di disagio in qualsiasi momento, con equipe multidisciplinari proiettate verso la comunità, verso l'aiuto alle famiglie. C'è un'azione di sistema da mettere in campo: bisogna essere presenti, proattivi, uscire da ambulatori e ospedali, andare a casa delle famiglie, incontrare la sofferenza e le difficoltà, evitando così che si manifestino forme estreme".
Nella salute mentale "non abbiamo bisogno di tecnologie sofisticate ma abbiamo bisogno di tecnologia umana, di persone competenti e motivate che svolgano questo lavoro. Dal disturbo mentale ci si riprende - conclude il presidente Siep - a patto che si intervenga precocemente e in maniera appropriata, secondo i percorsi di cura definiti dal Ministero e con continuità nel tempo".
La notizia sul sito dell'Agenzia Dire
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Finalmente liberi, finalmente la normalità. Sì, ma come stiamo? E la domanda che ci si pone nel ritorno alla socialità di queste ultime settimane. Al momento le regioni in zona bianca sono 12, più la provincia autonoma di Trento: in pratica oltre 40 milioni gli italiani, circa due cittadini su tre, vivono con le restrizioni anti-Covid ridotte al minimo. Eppure non è scontato che tutto sia rose e fiori.
Come ha spiegato all'Agenzia Dire lo psichiatra Carlo Valitutti, si può notare "da parte delle persone un disagio maggiore rispetto a quanto successo dopo il primo lockdown. Paradossalmente, se da una parte è vero che c'è voglia di libertà, dall'altra in molti non si lasciano poi andare così tranquillamente all'idea di ricominciare a frequentare palestre o piscine, per esempio. Questo è quello che in realtà si avverte al di là di quello che si potrebbe pensare vedendo bar e ristoranti aperti".
Insomma, più di qualcuno sta vivendo con un certo disagio il tanto desiderato ritorno alla vita. Secondo Valitutti si è creato uno scollamento tra la necessità di tutelare la salute e il bisogno di riprendere le attività economiche e lavorative che è andato ad aumentare mese dopo mese, creando "nelle persone confusione e perdita di senso critico".
Per quanto agognati, insomma, l'accelerazione nel ritmo delle vaccinazioni e il calo dei contagi (e dei morti) si sono tradotti in un distacco tra la velocità del tempo esterno e la necessità di lentezza del tempo interno. "La velocità delle riaperture associata a una voglia di tornare alla normalità ha paradossalmente creato più confusione - ha aggiunto Valitutti - Ci sono persone che invece di essere felici della ripartenza hanno iniziato ora ad avere dei dubbi che forse avrebbero dovuto avere prima, in piena pandemia. Secondo una dinamica che sarà capitata nel quotidiano di molti di noi, persone abituate a usare la ragione, "si sono lasciate andare andare a valutazioni catastrofiste", incontrando e ponendo ostacoli alla propria normalità.
Ma una soluzione c'è, secondo lo psichiatra: l'esercizio del proprio senso critico. "Serve per pensare che stiamo vivendo un
momento necessario per salvaguardarci e necessario anche per il futuro - afferma Valitutti - Così come servirà l'idea che non siamo onnipotenti, che non possiamo risolvere tutto in un determinato modo ma che dobbiamo rispettarci e rispettare quello che ci circonda. Il virus ci ha rimandato il nostro limite".
IncluPsy è un progetto finanziato con il supporto della Commissione europea che ha l’obiettivo di promuovere l'inclusione sociale delle persone che convivono con disturbi mentali. Sono 6 i partner (provenienti da cinque diversi Paesi europei) chiamati a confrontarsi e a scambiare le proprie esperienze al fine di rafforzare le proprie capacità e definire buone pratiche sul tema.
Con Inclupsy si vuole inoltre accrescere la consapevolezza e il coinvolgimento sul tema di un numero più ampio di attori sul tema dell’inclusione sociale. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, infatti, un europeo su quattro è affetto da patologie mentali.
Il rapporto “Health at a Glance: Europe”, realizzato da Commissione europea e Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, evidenzia come il disagio psichico sia uno dei temi più urgenti da affrontare e avverte delle conseguenze economiche e sociali del problema.
Le persone con disturbi mentali gravi e persistenti soffrono generalmente di un grande senso di isolamento, della perdita della capacità di intraprendere iniziative e di vivere in alloggi indipendenti, mantenere un lavoro e compiere le normali azioni del quotidiano.
Questi effetti, combinati con la stigmatizzazione e, in certi casi, prolungati e ripetuti ricoveri in psichiatria, diventano essi stessi un fattore di disinserimento sociale, portando le persone a perdere la casa, a vagare in strada ed essere esclusi.
Alla luce dei collegamenti (come causa o conseguenza) tra disturbi mentali ed esclusione sociale, non sorprende che l'inclusione sia una delle priorità europee. Ma quali pratiche vengono implementate dall'Europa per promuovere l'inclusione sociale delle persone che convivono con disturbi mentali? È questa domanda il filo conduttore del progetto IncluPsy.
Vai al sito di IncluPsy.
Nel laboratorio di pittura, Gino usa i colori con confidenza e senza risparmio, quasi esageratamente. Cospargendo anche il suo volto, le mani e le braccia, che utilizza come estensione del foglio di carta.
Anche il suo debutto nel laboratorio di teatro lascia stupiti. La scelta dei brani da interpretare durante le prove riflette la profondità del suo mondo interiore: interagisce con gli altri partecipanti e con i volontari, come se fossero colleghi di arte da sempre, e stabilisce da subito un particolare rapporto di fiducia con il regista.
Gino ha 38 anni. Due anni fa, gli operatori del Centro di Salute Mentale, che lo seguono nel suo percorso terapeutico-riabilitativo, gli consigliano di frequentare le attività organizzate dalla Fondazione Di Liegro.
Come detto, Gino dimostra subito una predisposizione naturale nell’utilizzare il linguaggio artistico. Attento, partecipa assiduamente a tutto quanto avviene. Il suo entusiasmo è incontenibile, contagioso, tanto da farlo divenire un catalizzatore del gruppo.
Gino è una persona affettuosa e le sue emozioni sono dirompenti: i baci e gli abbracci che dispensa quando ci si incontra rendono fisico e tangibile quello che prova.
Ma l’entusiasmo nello stare insieme ha come rovescio della medaglia un forte senso di solitudine. E quando G. si ritrova a casa da solo, il malumore e i cattivi pensieri rischiano di prendere il sopravvento.
La Fondazione Di Liegro è un luogo di relazioni e scambio per tutte le persone che la frequentano. Gli incontri settimanali per i laboratori, i corsi di formazione o i gruppi di auto mutuo aiuto sono appuntamenti fissi; e per alcuni partecipanti la Fondazione è diventata un punto di riferimento, uno dei pochi insieme al servizio sanitario e alla famiglia.
La sospensione delle attività in presenza, con la chiusura della sede durante la pandemia per il COVID-19, ha rappresentato per tutti un cambiamento importante: la mancanza di un luogo di incontro è stata forte.
Per qualcuno, più che per altri, l’interruzione degli incontri e l’impossibilità di incontrarsi di persona e salutarsi con un bacio e un abbraccio sono stati un evento imprevisto, che ha scosso un fragile equilibrio.
Questo è proprio ciò che è successo a Gino.
Gino, più degli altri colleghi di corso, ha risentito del lockdown e della mancanza di quei momenti, sviluppando acute manifestazioni di insofferenza e crisi depressive durante la pandemia. E se nei primi giorni il contatto telefonico ha permesso di contenere in qualche misura il suo disagio, con il prolungarsi della quarantena e dell’isolamento non è stato più sufficiente.
Gino. non ha più sopportato la sua angoscia e ha chiamato gli operatori della Fondazione dicendo che stava molto male e che temeva di non riuscire a farcela. Da questo momento. è stato prima ricoverato presso un servizio di emergenza e poi in una struttura residenziale.
La Fondazione durante il periodo di quarantena ha avuto il principale obiettivo di rimanere in contatto con la propria comunità di utenti, volontari e familiari e di garantire un servizio di ascolto e sostegno alla cittadinanza attraverso il Servizio di Orientamento e Supporto Sociale per la Salute Mentale SOSS.
Sin dai primi giorni di pandemia abbiamo stabilito degli appuntamenti telefonici per monitorare gli effetti che la situazione emergenziale e di isolamento imposto stava avendo sulle persone più fragili. La solitudine e la sospensione di una routine, come anche di una frequentazione più assidua dei servizi di salute mentale, è stato destabilizzante per gli utenti e i familiari in particolare.
L’utilizzo dei dispositivi digitali ci è stato di grande aiuto nel mantenere il contatto con partecipanti, familiari e volontari, poiché abbiamo quasi subito trasportato gli appuntamenti delle nostre attività sulle piattaforme digitali e la maggior parte delle persone, avendo uno smartphone o un pc, ha partecipato agli appuntamenti. Quando questo non è stato possibile, abbiamo mantenuto un contatto “analogico” attraverso chiamate telefoniche.
Gli incontri on line hanno dato la possibilità, anche se mediata da uno schermo, di vedersi e parlarsi e di continuare le attività dei laboratori.
Questo è ciò che è successo anche con G., con cui siamo riusciti a rimanere in contatto durante tutte le fasi del suo ricovero, sia in ospedale che nella struttura residenziale, riuscendo a coinvolgerlo nei nuovi appuntamenti digitali.
Questa nuova modalità ha rappresentato una sfida per tutti noi, una sfida che però è stata l’occasione per molti di sperimentarsi con qualcosa di nuovo, acquisendo una dimestichezza con questi mezzi e nuove competenze tecnologiche. Anche gli operatori e i volontari si sono reinventati, hanno utilizzato nuove forme per rimanere in contatto e supportare gli utenti anche a distanza.
Oggi Gino sta un po’ meglio. Ogni giorno si fa sentire per aggiornarci sul suo stato di salute e la domanda che conclude sempre la sue telefonate è: “Quando riprendono i laboratori? Mi mancano, mi mancate!”.
Per la Fondazione questi mesi di pandemia sono stati uno stimolo a far sentire che la comunità di cui facciamo parte continuava a essere presente accanto a loro e ci ha dimostrato che, a volte, un limite come gli incontri on line può trasformarsi in un’inaspettata opportunità.
Secondo il Rapporto sul benessere equo e sostenibile 2020 dell’Istat, peggiora il benessere mentale tra gli anziani e tra i residenti in Lombardia, Piemonte e Campania. Il BES fornisce annualmente un’analisi dei progressi e delle criticità delle dimensioni del benessere in Italia. Nell’anno della pandemia, l’analisi dell’indice di salute mentale assume un rilievo particolare.
L’Istituto di statistica segnala come la variazione generale per il totale della popolazione rispetto al 2019 non sia significativa, forse perché nelle prime fasi dell’epidemia la valutazione delle proprie condizioni di salute è stata influenzata dalla relativizzazione del proprio stato psico-fisico in confronto a quello di altre persone in situazioni peggiori e dal ruolo importante svolto dal contesto familiare che ha permesso di mantenere un clima di serenità nella maggior parte delle famiglie.
Emergono però tendenze differenti in sottogruppi di popolazione. Peggiora la situazione delle persone di 75 anni e più sia tra gli uomini, sia tra le donne; tra gli uomini di questa età cala di 1 punto, (che diventano -2 punti per i residenti nel Nord), tra le donne il calo si osserva anche tra quelle di 65-74 anni (-1,7).
Le condizioni di maggiore isolamento vissuto durante il 2020 hanno condizionato soprattutto la salute mentale delle persone sole nella fascia di età 55-64, anche qui soprattutto al Nord. Anche tra le giovani donne di 20-24 anni, tuttavia, il punteggio cala di oltre 2 punti rispetto all’anno precedente.
Peggiora l’indice di salute mentale in Lombardia, Piemonte e Campania che presentano i valori più bassi insieme al Molise. I differenziali di genere si ampliano, con condizioni più sfavorevoli per le donne (66 contro 71,1). Le condizioni di benessere mentale si deteriorano al crescere dell’età, con una differenza di circa 10 punti tra il punteggio dei più giovani e dei più anziani.
Si ferma l’evoluzione positiva della speranza di vita. Il capitolo salute rileva in particolare che l’evoluzione positiva della speranza di vita alla nascita tra il 2010 e il 2019, pur con evidenti disuguaglianze geografiche e di genere, è stata duramente frenata dal Covid-19 che ha annullato, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del Paese, i guadagni in anni di vita attesi maturati nel decennio.
L’Indice di salute mentale è una misura di disagio psicologico (psychological distress) ottenuta dalla sintesi dei punteggi totalizzati da ciascun intervistato con età superiore ai 14 anni ai quesiti riferiti alle quattro dimensioni principali della salute mentale (ansia, depressione, perdita di controllo comportamentale o emozionale e benessere psicologico). L’indice varia tra 0 e 100, con migliori condizioni di benessere psicologico al crescere del valore dell’indice.
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Se hai almeno 18 anni e sei figlio/a di genitori che vivono o hanno vissuto l'esperienza della sofferenza mentale, desideriamo conoscere e dare voce alla tua esperienza.
Rispondendo a un questionario completamente anonimo, potrai aiutarci a portare avanti il progetto Share4Carers e a rendere questo argomento più conosciuto. Le tue risposte, insieme a quelle di altri figli e figlie di altri Paesi europei, ci aiuteranno a comprendere la situazione in Europa e saranno il punto di partenza per produrre raccomandazioni per policymaker, istituzioni, professionisti e altri stakeholder.
Se desideri partecipare, clicca su questo link:
e lascia per favore il tuo indirizzo e-mail. Nelle prossime settimane riceverai il questionario nella tua casella di posta elettronica. Per assicurarti di riceverlo, controlla anche la cartella Spam/Posta Indesiderata.
COMIP (Associazione di Promozione SocialeChildren of Mentally Ill Parents) e Fondazione Don Luigi Di Liegro, insieme a partner da altri paesi europei di Turchia, Belgio e Grecia, stanno portando avanti Share4Carers, un Progetto Erasmus+ per condividere buone pratiche per il supporto dei figli di genitori con problemi di salute mentale in Europa.
L'ambizione del progetto Share4Carers è produrre raccomandazioni che contribuiranno a promuovere la resilienza e un esito positivo nei figli di genitori con disturbi psichici e nelle loro famiglie, accelerando l'adozione di pratiche di psicoeducazione in tutta Europa coinvolgendo organizzazioni di pazienti e familiari, professionisti e caregiver nello sviluppo delle buone pratiche stesse.
Grazie per aiutarci a sensibilizzare sui "Forgotten Children", i Figli Dimenticati, e a fare advocacy per prevenzione e supporto!
Per saperne di più sul progetto
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Disturbi mentali gravi che possono compromettere la capacità genitoriale. Nelle ricerche condotte i figli riferiscono frequentemente esperienze di trascuratezza e abuso, sentimenti di paura o pericolo a causa dei sintomi psichiatrici dei loro genitori di cui sono “costretti” a diventare caregiver.
I dati e le ricerche su questa condizione sono frammentati e troppo spesso lacunosi, ma restituiscono un quadro drammatico. Nel 2004 (Nicholson et al.) riportava che il 67% delle donne e il 75% degli uomini che vivono condizioni di serio disagio psichico (tra cui schizofrenia, disturbi bipolari, depressione grave) sono genitori.
Inoltre, l’interazione fra genetica e ambiente in combinazione con un’elevata esposizione a stress emotivo rappresenta un fattore di rischio per i figli (sia minori che adulti) di sviluppare problemi psichiatrici in futuro.
Da qui la necessità di sensibilizzare e informare la società civile sulla tematica e la messa a fuoco di strumenti concreti di sostegno ai figli di genitori con disagio psichico. Il progetto ha lavorato quindi, grazie alla collaborazione di partner provenienti da diversi paesi (Belgio, Grecia, Italia e Turchia) alla condivisione di buone pratiche sulle strategie di advocacy e alla promozione di un cambiamento nelle policy a livello nazionale e dell’UE. I principali destinatari delle azioni di informazione e sensibilizzazione, oltre ai professionisti della salute mentale, sono stati proprio i caregiver familiari: per orientarli ai servizi di supporto dei servizi di salute mentale e per promuovere scambio di esperienze e di mutuo-aiuto.