Il XIV corso di formazione della Fondazione Di Liegro "Dall’isolamento alla resilienza" si è concluso con un’ampia panoramica condotta dal dottor Michele Di Nunzio, psichiatra psicoterapeuta e criminologo, sul tema "Il ruolo del volontariato: riflessioni, metodologie, esperienze". Un racconto in prima persona, da un operatore che considera il volontariato un contributo “di fondamentale importanza” nel campo della salute mentale.
Punto di partenza: nell’esperienza del volontario fare del bene agli altri è un effetto secondario, successivo all’azione prioritaria che è quella di fare del bene a se stessi. Io sto facendo qualcosa che, facendomi sentire meglio, accrescendo la qualità della mia vita, mi metterà in condizione di produrre relazioni propositive, costruttive, funzionali anche per l’altro.
La mia serenità è fondamentale. Nei momenti di malumore mi è utile il ricordo, il collegamento con le ragioni che mi hanno condotto a questa scelta.
Il volontario, come chiunque operi in un settore ad alto impatto emotivo come il volontariato e sia per questo molto esposto al logoramento, deve mettere in conto la necessità di fare costantemente la "manutenzione di se stesso", che significa tornare a capire "quello che faccio e perché lo faccio".
Questa azione di consapevolezza ha un nome: meta-cognizione. Si può sviluppare con qualche suggerimento: tenere un diario, leggere molto, ascoltare molto, accogliere ogni occasione ludico-ricreativa che includa una componente emotiva, conoscitiva, razionale, intellettuale. In questo, cinema e teatro sono preziosi.
Può capitare spesso che un volontario della salute mentale incontri persone scontrose, diffidenti, addirittura ostili. L’altro che ci tratta male è qualcuno che ci percepisce come più potente, ha paura di noi e pertanto si difende. Le chiavi per risolvere questo tipo di situazione sono l’umiltà, l’ascolto, la comprensione, l’umana curiosità. Chiavi che sono preziose anche quando l’altro che incontriamo ha scelto di non vivere, di chiudersi in se stesso, come risposta alle paure non risolte che nella stragrande maggioranza dei casi sono all’origine del disagio psichico.
La persona di cui il volontario si prende cura ha necessariamente una ‘diagnosi’, che però non la descrive nella sua interezza. Bisognerà farsi raccontare la sua vita, prima dagli operatori poi da lei stessa, quando vorrà, se vorrà, come vorrà.
Uno dei cimenti maggiori nei quali il volontario può applicarsi è mediare tra le antiche paure tuttora cogenti e la bontà del mondo, che pure esiste. Saranno le piccole cose che rappresentano per tutti il tessuto della vita, alle quali diamo poca importanza ma che riempiono gran parte del nostro tempo, a favorire la riapertura al mondo.
Il volontario è quindi 'ingenuo', fa domande, svela cose che gli operatori nella loro routine hanno perso di vista. La sua ‘sprovvedutezza’ come d’altra parte la diversità del suo bagaglio lavorativo e professionale sono contributi importanti per il settore della salute mentale.
E infine c’è la ‘valorialità’, perché i valori, gli ideali qualificano enormemente la nostra esistenza. Ed è difficile che il volontario sia arrivato a questa scelta senza aver avuto una formazione valoriale.
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Anche in tema di dipendenze, l’impatto della pandemia sulla salute mentale è emerso con evidenza nella prima ondata del virus e ha una data d’inizio: il 9 marzo scorso, quando l’entrata in vigore del lockdown, il confinamento, ha cambiato forse per sempre il nostro stile di vita.
L’esistenza stessa del Covid-19 ha innescato una sindrome da disadattamento nella popolazione generale e a maggior ragione in una fascia di persone con preesistenti disturbi psichici con diagnosi nello spettro ansioso depressivo.
Nell’ambito delle dipendenze - in cui opera lo psichiatra Alessandro Vento, relatore del VI incontro del corso di formazione "Volontari e famiglie in rete per la salute mentale" e responsabile dell'Osservatorio sulle dipendenze - si sono modificati i pattern di consumo. C’è stato un massiccio aumento del consumo di alcol e di farmaci di prescrizione, soprattutto da parte di utilizzatori di sostanze psicoattive di strada, scomparse dal mercato durante il lockdown. Parallelamente è aumentata la adulterazione delle sostanze - che i consumatori hanno cominciato a tagliare con quello che avevano a disposizione, con danni maggiori per la salute - e l’acquisto on line di sostanze psicoattive, legali o no.
Da segnalare anche il ricorso a cibi con proprietà psico-farmacologiche (ad esempio le spezie) utilizzati nella pandemia insieme all’alcol, come condotta di tipo compensativo.
Ci sono state grandi differenze tra la prima e la seconda ondata del Covid, ha confermato Giuseppe Ducci, direttore del Dipartimento di Salute Mentale Asl Roma 1, anche lui relatore nel VI incontro del corso di formazione. Differenze dovute ai diversi tipi di isolamento messi in atto. I problemi di natura psichiatrica sono stati molto maggiori durante il lockdown. Nella Asl Roma 1 ci sono stati cinque suicidi, tutti di donne sole.
Bisogna considerare che gli elementi fondamentali della salute mentale sono la socialità e la resilienza che è quella capacità di adattarsi alle circostanze, superare lo stress degli eventi avversi che si verificano nella vita, mantenendo o ripristinando in tempi abbastanza brevi l’equilibrio.
Questa pandemia avviene a distanza di un secolo dalla "spagnola", in un mondo totalmente diverso e che cambierà ancora profondamente a causa dell’emergenza che stiamo vivendo, e deve essere un’opportunità per costruire un modo diverso di operare anche nella salute mentale.
Bisogna passare a “una nuova cultura della presa in carico dell’utente", basata sull’integrazione forte dei servizi, immaginare e realizzare gruppi di lavoro flessibili formati da diversi operatori con diverse competenze che si costituiscano su un caso, un paziente, ritagliati sulle caratteristiche della persona. Gruppi aperti a soggetti esterni, come le famiglie e le realtà attive nel territorio. Su questo la Asl Roma 1 sta lavorando.
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Ci sono due tipi di trauma, Big-T e Small-T.
Come ha spiegato la psicologa e psicoterapeuta Silvia Pepe, nel corso del quinto incontro del corso di formazione "Volontari e famiglie in rete per la salute mentale", al primo appartengono eventi di grande portata, anche collettiva, che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care, come abusi, incidenti gravi, disastri naturali. Al secondo, si riferiscono esperienze ed eventi di vita emotivamente stressanti che lasciano segni indelebili sul senso di sicurezza e di fiducia.
La ricerca scientifica ha dimostrato che i due tipi di trauma, seppure molto differenti, dal punto di vista emotivo determinano una reazione pressoché analoga e gli stessi sintomi: disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e di memoria, mancanza di energia, irritabilità, chiusura.
Il COVID-19 è al contempo un trauma Big-T e Small-T, individuale e collettivo. Separa un prima da un dopo: è impensabile immaginare che la vita possa restare la stessa. Non c‘è difesa possibile. Ci sentiamo sovrastati da un evento più grande di noi. Siamo passati da una situazione di potenza a una di impotenza.
In una guerra si conosce il nemico, con il virus il nemico è sconosciuto, per difenderci c’è solo il confinamento, la rinuncia alla socialità, al rapporto fisico con gli altri. La pandemia ha cancellato persino i rituali che accompagnano il lutto e ne attutiscono il dolore.
In questo quadro, più della paura che si può affrontare e vincere, ci assale l’angoscia che viaggia nel mondo dell’ignoto.
Come reagire?
Anche isolati nel lockdown possiamo sperimentare la libertà in modo diverso: con la solidarietà e la connessione con l’altro attraverso strumenti nuovi che ci consentano di superare i limiti imposti a livello individuale e collettivo.
Il trauma porta con sé una “forza misteriosa”. Esistono crescite post traumatiche, pericoli e rotture che diventano opportunità, resilienze. Il gruppo è un potente sistema, bisogna ripartire dalle relazioni. Per combattere contro l’angoscia del futuro restiamo nel “qui e ora”, seguendo regole semplici come mangiare e dormire in modo regolare, parlare con la famiglia e gli amici, fare esercizio fisico e attività che aiutano a rilassarsi, ascoltare musica, leggere. E trovare il modo di aiutare gli altri in una nuova fratellanza.
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La resilienza e l’empatia sono concetti che non nascono nell’ambito della salute mentale ma lo attraversano sempre di più. I volontari che si impegnano o intendono impegnarsi nel sostegno di persone affette da disturbi psichici devono conoscerli e comprenderli a fondo.
“La resilienza come strumento di salute mentale” è il titolo del quarto incontro del nostro corso di formazione, condotto dallo psichiatra Josè Mannu, a lungo collaboratore di don Don Luigi Di Liegro.
Prima un po’ di storia, a partire dall’ultimo scorcio del 18esimo secolo, quando si fa strada in Francia e in Gran Bretagna l’ipotesi che la “follia” debba considerarsi sempre “parziale“ e come tale curabile con un “trattamento morale” rieducativo della parte sana della persona, accompagnato da metodi costrittivi e punitivi.
Durante la seconda guerra mondiale il tema della “follia parziale” viene rielaborato: per combattere la parte malata bisogna allearsi con quella sana e si deve farlo insieme, in una comunità terapeutica diversa dal manicomio, concettualmente non costrittiva e punitiva.
Qualche decina di anni dopo, in Italia Franco Basaglia parte dalla constatazione che qualunque luogo costruito per guarire la malattia psichica diventa cronicizzante, per iniziare il percorso che porterà alla chiusura dei manicomi, all’apertura al territorio e alla società civile, alla legge 180. La territorializzazione è un cambiamento radicale che richiede un profondo cambiamento culturale.
Nel nuovo millennio la consapevolezza dell’importanza del legame tra individuo e contesto sociale si rafforza. Non c’è bisogno di “luoghi” dedicati, qualunque uomo vive di relazioni, di rapporti. Prendersi cura di una persona non significa “curarla”, ma sostenere la sua capacità di curare se stessa, aiutarla a sviluppare le potenzialità – che tutti hanno – per supportare il suo funzionamento all’interno della società. La base della sua resilienza.
Per arrivare a questo è necessario prima individuare il vero bisogno, ascoltare, chiarire, comprendere, sospendere il giudizio rinunciando a cercare le cause, mantenendo nei giusti limiti l’empatia con l’altro, evitando i pensieri rischiosi che possono comparire come “io non ho bisogno di nessuno, ma gli altri hanno bisogno di me”.
La storia di una persona vulnerabile non prevede l’autonomia perché la vita di tutti è una progressiva distribuzione delle dipendenze (dai genitori, agli insegnanti, agli amici, ai colleghi, ai legami affettivi ecc.). L’essere umano e il suo cervello si sviluppano in funzione delle relazioni costruite nel tempo, quanto più è distribuita la dipendenza, tanto più si è autonomi. Dobbiamo cambiare il modo di pensare. Non siamo in grado di restituire la normalità ma possiamo allargarla, in modo tale che ci sia spazio per vivere col problema che tutti – nessuno escluso – si portano appresso. Questo è guarire.
“La resilienza come strumento di salute mentale” è il titolo del quarto appuntamento del corso di formazione "Volontari e famiglie in rete per la salute mentale", relatore lo psichiatra José Mannu.
La "resilienza" non è un termine che nasce in ambito psichiatrico - ha spiegato Mannu nel corso del suo recente intervento al Màt Modena, Settimana della Salute Mentale - ma proviene dall’ingegneria, e indica la capacità di un materiale di assorbire energia elasticamente, quando sottoposto a un carico o a un urto, prima di giungere a rottura.
Per comprendere l’utilizzo della parola resilienza nell’ambito della salute mentale, è opportuno ripercorrere la storia della psichiatria. Nel ‘700 Philippe Pinel suggerisce che i folli siano considerati persone e che la follia sia solo follia parziale. Il folle ha dunque una parte sana, che deve essere liberata dalla malattia, attraverso il “trattamento morale”. Cioè sviluppare la parte sana attraverso l’educazione, la persuasione e la disciplina dell’individuo. Nascono così i manicomi.
Durante la seconda Guerra Mondiale, Wilfred Bion suggerisce di allearsi con la parte sana per combattere insieme quella malata. Questa alleanza avviene nella comunità, un luogo dove la follia potesse esprimersi liberamente, e non come in manicomio.
Con l'esperimento di comunità realizzato a Gorizia, negli anni ’60 Franco Basaglia sostiene che l'esistenza stessa di un luogo in cui la follia possa esprimersi causa una cronicizzazione della malattia. Per questo, secondo Basaglia, la cura non può avvenire in un luogo, ma nel territorio dove una persona vive. Si tratta di un cambiamento culturale nella psichiatria, una vera rivoluzione.
All’alba degli anni 2000, la Teoria della Capacità impone una nuova visione della “parte sana”, che si esprime attraverso la capacità e il funzionamento della persona. Il benessere individuale nasce dalla relazione. Diventa dunque necessario vedere dove le persone sono in grado di agire, dove “funzionano”, cioè la reale opportunità di intraprendere un'attività e la reale voglia di essere ciò che si vuole essere.
Tornando alla resilienza, possiamo dire che questa esplora i modi in cui gestire una natura (o un tessuto economico/sociale) che non è in equilibrio. Secondo la definizione di Michael Ungar, “Più che un set di caratteristiche individuali, sono le strutture intorno alla persona, i servizi che la persona riceve, il modo in cui è strutturata la sanità, tutti questi si combinano con le caratteristiche della persona che permettono di far fronte alle avversità che affrontano e trovare strade verso la resilienza”.
Solo chi ha la memoria è in grado di vivere nella fragilità del tempo presente. Lo ha spiegato il filosofo Pierangelo Di Vittorio, sabato 24 ottobre, durante il terzo incontro del corso di formazione “Volontari e famiglie in rete per la salute mentale”, dal titolo “Le relazioni sociali, un nuovo paradigma”, in un excursus tra arte, letteratura, filosofia e cinema.
C’è un valore d’uso della Storia: il presente deve rileggere costantemente il passato, farlo a pezzi per riattualizzarlo. Il monumento è il grado zero del valore d’uso, non serve alla vita, ha affermato Di Vittorio sulla scorta di Nietzsche. Solo smontando e rimontando il passato può nascere qualcosa di nuovo.
Ma cosa fonda il legame sociale nel corso della Storia? Secondo una certa cultura, l’uomo agisce razionalmente perseguendo il proprio utile, e la coesione sociale nascerebbe dal gioco regolato degli interessi individuali.
E se invece fosse un “trauma”, personale o collettivo, a rendere possibile un legame fra gli uomini? Pensiamo a Edipo che, nel cercare di rispondere alla domanda “da dove vengo? chi sono?”, scopre l’orrore della propria storia. La democrazia ateniese rifletteva su se stessa attraverso le tragedie, ed è forse è sempre intorno a un trauma che una comunità si raccoglie.
Sul tema della “follia” c’è stata, da un lato una caduta di interesse sociale che ha riportato ai margini i malati mentali, mentre dall’altro, nel delirio capitalista in cui siamo presi – secondo Pierangelo Di Vittorio –, la follia è “messa al lavoro”: lo scatenamento pulsionale (droghe, eccessi di ogni genere, violenza) diventa la leva per incrementare la produzione, per produrre ricchezza.
C’è bisogno che la follia torni a risuonare nella società. La società deve riconoscere, non solo che la follia le appartiene, ma anche che svolge un “servizio pubblico”: ritrovando le tracce del legame sociale lacerato e perduto, può offrire la possibilità di un vivere comune più ricco e fecondo.
Come dimostra l’esperienza di Basaglia, tuttavia, per creare un legame sociale bisogna prima riconoscere l’“altro” come un avversario legittimo. Dinanzi agli internati di Gorizia, che contestavano il riformismo della comunità terapeutica, il gesto umanitario di Basaglia ha dovuto farsi politico, prima accogliendo la loro contestazione, poi diventando un loro alleato nella lotta per il superamento del manicomio.
È da questo esempio che si può ricominciare.
La biografia “Franco Basaglia”, di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio
Prima di analizzare le relazioni sociali, è bene occuparsi del nuovo paradigma. Ma come va costruito questo “nuovo”? È la domanda da cui partirà il filosofo Pierangelo Di Vittorio, nel terzo appuntamento del corso di formazione “Volontari e famiglie in rete per la salute mentale”, in programma sabato 24 ottobre, presso la Fondazione Di Liegro.
La risposta – secondo Di Vittorio - è nel mettere insieme pezzi di passato, nella forma di archivi culturali, e pezzi di presente, cioè diagnosi sui problemi e le tensioni che attraversano l’attualità. Una specie di mosaico, formato da tasselli su cui Di Vittorio lavora da tempo, raccolti a partire dalla questione delle relazioni sociali.
Ed è come in un mosaico che si comporranno i temi dell’incontro, tra il filosofo Walter Benjamin e il presente che ha “il potere delle chiavi sulle stanze del passato” e lo scrittore e filosofo Michel Foucault, che si è occupato della pazzia sin dalla sua tesi di dottorato “Storia della follia nell’età classica” e proprio sulla follia ci ha invitato a interrogarci, perché “dall’uomo al vero uomo, la strada passa per l’uomo pazzo”.
Durante l’incontro si parlerà inevitabilmente di Franco Basaglia (con cui Pierangelo Di Vittorio venne indirettamente in contatto quando dopo la laurea svolse il servizio civile presso il Dipartimento di salute mentale di Trieste) e della sua decisione di intraprendere la strada dell’invenzione e della cura del legame sociale. Si legga a tal proposito la monografia "Franco Basaglia", scritta con Mario Colucci, uscita nel 2001 e recentemente riedita.
“Iniziata nel segno di un amore per il sapere, nel segno della filosofia, l’esperienza di Basaglia si è sviluppata come un rapporto d’amore nei confronti dei pazienti, per realizzarsi infine nella costruzione di un altro modo di vivere insieme. Un vivere comune più giusto e fecondo – ha scritto Di Vittorio sulla rivista “Aut Aut” nel 2017 – di cui la società italiana e il mondo intero portano ancora la responsabilità e l’attiva speranza”.
Quante volte sentiamo rivolgere un banale “Come stai?”, seguito spesso da un altrettanto banale “bene, grazie”? Infinite volte. In realtà, in questa domanda c’è una proposta di relazione dietro la quale possono esserci moltissime sfumature che portano ad entrare in rapporto con un’altra persona. E se, ad esempio, quell’altra persona è un malato senzatetto che sta soffrendo in strada le conseguenze del lockdown e ha perso quel poco di apertura relazionale che si era costruito arrivando a trascurare del tutto il suo stato di salute e il suo malessere, quel ‘come stai’ (o anche un ‘come va’ o un ‘che si dice’) può diventare il primo passo verso l’avvicinamento alle strutture sanitarie.
Così è cominciato Tu come stai? Distanziamento, isolamento e solitudine, il secondo incontro del corso di formazione "Volontari e famiglie in rete per la salute mentale" della Fondazione Di Liegro. Relatore, il Dott. Massimiliano Aragona, psichiatra, psicoterapeuta e filosofo, coordinatore del SIMM, gruppo “Salute mentale e Immigrazione” della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni.
Inevitabilmente, il COVID-19 è stato al centro del suo discorso e degli interventi dei partecipanti in presenza e in rete, volontari e persone attive nel Terzo settore.
Anche dentro le case il lockdown totale ha rappresentato un shock, il cambiamento del nostro stile di vita che non concepiva il distanziamento sociale, il divieto del rapporto fisico. Molti ne hanno sofferto profondamente, ma non sono stati pochi quelli che ne hanno apprezzato alcuni aspetti: le città e l’aria più pulite, il traffico cancellato, le file rispettate, i cinema vuoti.
Conferma che in ogni situazione – anche in quella che 60 milioni di italiani stanno vivendo contemporaneamente, ognuno a suo modo – esistono fattori di resilienza, opportunità inaspettate che, se prese dal lato giusto, possono portare a sviluppi positivi. Per esempio costringerci a porci la domanda: “Che cos’è veramente importante nella vita?”.
Ma in definitiva, il lockdown ha migliorato le cose nelle comunità, famiglia in primis, in cui le cose andavano bene e peggiorato in quelle in cui andavano male.
Sorprese sono arrivate da diverse persone affette da particolari disturbi mentali, che hanno vissuto bene la condivisione delle regole con tutti gli altri.
Nella crisi il Terzo settore ha continuato ad essere presente, dimostrando quanto sia importante nella società.
Il Servizio pubblico nel suo complesso ha avuto molti problemi. La pandemia è stata uno stress-test per un sistema che ha mostrato le sue falle. Strutture sanitarie preposte alla cura delle malattie mentali davanti alla minaccia del virus hanno serrato le porte: i pazienti che erano fuori non sono potuti entrare, quelli che erano dentro non sono potuti uscire, restando chiusi insieme ai sanitari per un mese/un mese e mezzo, lontani dalla famiglia, spesso senza spiegazioni su quello che stava accadendo. Alcuni hanno sopportato bene, altri no.
E adesso c’è la seconda ondata. Bene o male la aspettavamo tutti e sapevamo che dovevamo prepararci, ma eccoci ancora tutti nella stessa barca con l’ansia che sale.
È una fase diversa. Probabilmente non ci sarà un secondo lockdown totale, letale per l’economia, ma mancano indicazioni e regole chiare per tutti e toccherà a ognuno di noi il compito e il peso di cercare i comportamenti giusti.
Il Covid non ci ha fermati e proprio dal tema “Ripartire dalla crisi” ha preso il via, il 3 ottobre, la XIV edizione del Corso di formazione "Volontari e famiglie in rete" della Fondazione Di Liegro. Andremo avanti fino al 5 dicembre: per noi la formazione e l’approfondimento sul tema del volontariato sono un appuntamento irrinunciabile.
Il virus ha cambiato in profondità il nostro modo di riunirci: vietato l'affiancamento. Un ristretto gruppo di partecipanti al corso, opportunamente distanziati, si incontra nella nostra sede. Gli altri sono collegati on line. La tecnologia crea una presenza virtuale che non fa rimpiangere troppo quella reale e offre nuove opportunità: quest'anno partecipano al corso persone che vivono in diverse parti d'Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, di età ed esperienze diverse.
Nei loro racconti è emerso quanto forte sia stato l’impatto del lockdown sul mondo del volontariato. Esperienze consolidate nel sostegno della parte più fragile della popolazione sono state poste davanti a una sfida. Sbarrate le porte dei reparti ospedalieri dove si aiutano i pazienti pediatrici, quelli oncologici e gli anziani soli. Fermi i laboratori dove persone con disturbi psichici trovano spazio per entrare in relazione con gli altri ed esprimere se stessi. Gli adolescenti down, in particolare, hanno sofferto molto, così come le famiglie.
Il volontariato ha reagito all’isolamento spostandosi sulla rete digitale, scoprendo che molte persone, specie giovani, nella comunicazione virtuale si aprono maggiormente, ma anche che sono ancora tanti quelli che non hanno accesso al web.
Esiste una frattura tra chi ha a disposizione gli strumenti informatici e chi no, ma il 95% della popolazione possiede uno smartphone e lì c’è spazio anche per il volontariato.
Ne è convinto il sociologo Andrea Volterrani, il primo relatore del nostro corso di formazione Volontari e famiglie in rete per la salute mentale. La prossimità fisica è in molti casi insostituibile, ma costruire le relazioni di reciprocità e fiducia, che sono la base di una comunità, è possibile anche nella rete. Chi si avvicina al volontariato deve sapere che ci vuole tempo e che non si può essere soli. Il volontariato individuale non esiste. È il gruppo, il collettivo, a essere vincente, anche in rete.
Tutti siamo in una comunità, quando costruiamo relazioni in uno stesso spazio e per un determinato periodo di tempo. Proprio dal concetto di comunità bisognerebbe partire anche quando si parla di volontariato e delle conseguenze della pandemia.
È questo il tema del primo appuntamento del corso di formazione “Volontari e famiglie in rete per la salute mentale”, dal titolo “Volontariato e comunità, ripartire dalla crisi”, in programma sabato 3 ottobre 2020, alle ore 10.30, con Andrea Volterrani, sociologo, ricercatore e docente all’Università di Roma Tor Vergata.
ISCRIVITI AL CORSO DI FORMAZIONE PER VOLONTARI IN RETE PER LA SALUTE MENTALE
Il professor Volterrani, che si occupa di ricerca, formazione e consulenze sulle politiche sociali, terzo settore, comunicazione sociale, valutazione del valore sociale aggiunto e di impatto del terzo settore, nuove forme della mutualità e della sussidiarietà e comunità resilienti, è autore di numerose pubblicazioni, tra cui (con Paola Tola e Andrea Bilotti) Il gusto del volontariato. Per Volterrani, il volontariato deve essere piacere e non dovere o sofferenza, piuttosto un’opera distintiva e non la gratificazione dell’aver dato aiuto.
Per questo, è necessario un cambio di mentalità, cercando di far crescere il capitale sociale all’interno di una comunità, emanciparla e, solo in un secondo momento, cercare il sostegno economico ai progetti. Un rovesciamento della prassi comune, insomma, in cui si dovrebbe prima emancipare la comunità e poi costruire i servizi, fornendole gli strumenti necessari.
Nel corso dell’incontro “Volontariato e comunità, ripartire dalla crisi”, Andrea Volterrani affronterà anche il tema dell’utilizzo dei media digitali per aumentare l'inclusione nelle comunità. Non possiamo ignorare gli strumenti tecnologici, ma possiamo usarli all’opposto dell’abituale individualizzazione, per fare inclusione sociale e immaginare spazi alternativi per comunità digitali intelligenti e consapevoli.
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