Abbiamo chiesto a Cesare Moreno, presidente dell'Associazione Maestri di Strada di onlus, di rispondere ad alcune domande.
Come si possono affrontare oggi i problemi della droga, del policonsumo di sostanze, delle nuove dipendenze, ad esempio, quelle tecnologiche tra i giovani e giovanissimi?
I comportamenti giovanili estremi, tra cui quelli citati, costituiscono risposte compulsive a problemi che richiedono risposte complesse che dovrebbero segnare il passaggio alla maturità. Dal mio punto di vista c’è il problema generale della dipendenza che è sostanzialmente una “crisi della presenza” o anche una forma di “anomia diffusa”. Due facce della stessa medaglia che rimandano a un sentirsi permanentemente fuori posto, dall’avere un bisogno compulsivo di sensazioni forti per accorgersi di esserci. Tra queste risposte includo anche la dipendenza da ideologie e da capi carismatici, il conformismo ossessivo e persino le sindromi di ritiro sociale che portano all’estremo questo sentirsi fuori posto. Tutte queste situazioni rimandano ad un unico problema: l’assenza di comunità, ossia l’assenza di legami significativi, di relazioni in cui la giovane persona sente di avere un ruolo, sente che la sua esistenza ha un significato, può sentire il suo esserci perché c’è qualcuno che condivide con lei un sogno, un desiderio.
Quale strategia devono avere oggi i servizi per affrontare il problema del disagio giovanile?
Qualsiasi servizio, a cominciare da quello scolastico, dovrebbe ripartire non dal disagio giovanile, ma dal “disagio della civiltà” dalle forme contemporanee che assume il disagio esistenziale, il modo dell’animale uomo di essere in una società organizzata. Il processo di ominizzazione o processo di incivilimento, anche nelle forme di cultura più rarefatta, è basato comunque su processi che riguardano il corpo e le sue espressioni emozionali. Il disagio della civiltà è innanzi tutto la difficoltà a collocare il sé corporeo in un processo sociale che nelle sue espressioni dominanti nega tutti i fenomeni legati al corpo e li tratta tutti come oggetto di consumo e di un ipercontrollo preteso razionale. Cominciare da qui significa lavorare con i giovani a partire dalla condivisione di un disagio profondo, a partire dal fatto che gli adulti e gli operatori dimostrino con la propria esistenza e resistenza di saper essere se stessi nonostante tutto, nonostante “ogni evidenza contraria” tesa alla svalutazione dell’umano. Qualsiasi servizio alla persona dovrebbe partire dalla condivisione, dal tentare di costruire comunità, dal curare insieme un bene comune che in questo caso è il benessere psichico dei giovani e degli operatori incaricati di interagire con loro.
Per affrontare le dipendenze come si può strutturare un lavoro in rete che sia organico e realmente integrato tra i servizi e le altre risorse presenti sul territorio: scuole, associazioni di volontariato, parrocchie, cooperative sociali, datori di lavoro?
Per un vero lavoro in rete occorre fondare un’alleanza a monte dei servizi. Occorre riconoscersi insieme in una comunità territoriale prima ancora che in una comunità professionale. Le reti finora sono state intese come una federazione di repubbliche indipendenti, con tutti i limiti ed i fallimenti del caso. Bisogna invece partire dalla condivisione di un bene comune che in questo caso è la rete delle relazioni comunitarie. Il popolo è entità concreta e non ideologica, quando esiste la cura reciproca, quando gli specialismi dialogano intimamente con interlocutori non specialistici. L’essenza di una vera comunità è il dialogo permanente e paritario tra persone che svolgono una funzione specializzata e comuni cittadini che non sono destinatari ma interlocutori di chi svolge un servizio. Ogni servizio ha una sua logica specifica legata alle tecniche che deve usare in relazione alla propria missione , ma tutti i servizi devono operare come parte di una comunità e come fondatori di quella comunità. Finché i servizi operano come avamposti dello Stato in territori non toccati dalla grazia, le reti non funzionano e se funzionano lo fanno a difesa di sé - di una identità professionale fine a se stessa - e non a sostegno della comunità di vita.
Da dove partire per avviare percorsi di recupero di giovani e giovanissimi che vivono forme di dipendenza e di disagio sociale?
Bisogna che in ogni quartiere, in ogni unità territoriale per la quale si possa ipotizzare uno spazio per relazioni comunitarie, ci sia un centro di promozione della socialità che non sia solo giovanile, ma riguardi tutti i cittadini che sentono il desiderio di stabilire relazioni di comunità, un luogo che promuova iniziative e non si limiti ad aggregare, un luogo cin cui si possa realizzare un incontro autentico tra le generazioni. In questo “brodo di coltura” comunitaria possono operare servizi specializzati che aiutano e sostengono i giovani nel trovare la strada della significanza.