"Non si può amare senza sporcarsi le mani. Ma soprattutto non si può amare senza condividere”. Si condensa in queste parole la vita straordinaria di don Luigi Di Liegro, nato il 16 Ottobre 1928 e morto il 12 Ottobre 1997. Responsabile dell’Ufficio Pastorale del Vicariato di Roma, primo direttore della Caritas Diocesana, è ricordato ancora oggi come “il prete degli ultimi”, per avere dedicato interamente la sua vita alla difesa dei poveri, degli esclusi, degli emarginati, di qualsiasi provenienza. “Il più grande sacramento è la relazione umana”, scriveva. Denunciando i rischi di una società votata all’esclusivismo e quindi all’esclusione. “La solidarietà nasce dall’analisi della complessità sociale, dal degrado provocato dalla legge del più forte, dalla carenza di etica collettiva”. Guidato da un senso altissimo della partecipazione civica e della dimensione politica: “Una città in cui un solo uomo soffre meno è una città migliore”. A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, il pensiero e l’opera di don Luigi rappresentano una luce per tutti coloro che si adoperano per la difesa e la promozione della dignità umana.
“Don Luigi Di Liegro ha offerto e chiesto a tutti condivisione. La sua instancabile opera di costruttore della solidarietà rimane una ricchezza inestimabile per Roma e per l’Italia” (Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica Italiana).
Luigi Di Liegro nasce a Gaeta il 16 ottobre, ultimo di otto figli. Il padre Cosmo aveva più volte tentato di emigrare in America, sempre respinto come clandestino. Quando a dieci anni Luigi manifesta l’intenzione di andare in Seminario, Cosmo inizialmente si oppone. Tuttavia Luigi viene accolto presso il Santuario del Divino Amore a Roma. La sua vocazione è sostenuta in particolare dalla sorella maggiore Maria, Suora del Divino Amore, autentica guida umana e spirituale per Luigi fino all’ordinazione sacerdotale e per tutti gli anni del suo ministero pastorale.
Il 4 aprile è ordinato sacerdote e nominato viceparroco di S. Leone Magno al Prenestino.
Don Luigi prende parte in Belgio a un corso di formazione, proposto dalla J.O.C. (Gioventù Operaia Cristiana), sui temi della pastorale del lavoro. Visita le miniere dove operano molti emigrati italiani e impara a condividerne i percorsi e le sofferenze.
Viene chiamato in Vicariato dal Card. Clemente Micara a lavorare a un nuovo assetto della Diocesi, più aderente alle ampie trasformazioni sociali che investono la città.
In collaborazione con il Centro di Studi sociali dell’Università Gregoriana, dà vita alla prima “Indagine sociologica sulla religiosità dei cristiani di Roma”. L’iniziativa mette in luce la preoccupante divaricazione fra una fede ancora dichiarata dalla stragrande maggioranza dei romani e le scelte concrete sul piano etico e sociale che gli stessi cittadini dichiaravano di operare. Questa divaricazione sarà, a detta dello stesso don Luigi, fra i motivi ispiratori del convegno del Febbraio 1974.
Don Luigi è chiamato dal Card. Angelo Dell’Acqua a dar vita al “Centro pastorale per l’animazione della comunità cristiana e i servizi socio-caritativi”, di cui diventa Direttore. Manterrà questo incarico fino al termine della sua vita. In questa cornice è essenziale comprendere anche il vero significato che la Caritas ha avuto nel suo pensiero e nella sua azione. Da questo ufficio porta a termine la nuova articolazione territoriale della diocesi, che è poi quella attuale. Riunisce le parrocchie in cinque grandi “settori”, a loro volta divisi in “prefetture”, che cerca di far coincidere con i confini delle circoscrizioni. Va ricordato che fin dagli anni Sessanta don Luigi si era adoperato affinché le comunità parrocchiali fossero luoghi di educazione alla partecipazione, in linea con le indicazioni emerse dal Concilio Vaticano II.
Si apre il 12 Febbraio, nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, il celebre convegno sui mali di Roma, intitolato: La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma. Don Luigi, incaricato dal Card. Ugo Poletti, ne è il coordinatore e l’anima. Il convegno porta alla luce le debolezze e le mancanze della capitale, denunciando le responsabilità e segnando una svolta nel rapporto fra la Chiesa e le istituzioni cittadine.
Sul finire degli anni Settanta Don Luigi sceglie di diventare pastore della nascente comunità di Centro Giano, una piccola borgata in prossimità di Ostia, di cui sarà il punto di riferimento fino al termine della sua vita. Lo anima una doppia convinzione: che un prete non è tale senza una comunità e che sia indispensabile leggere la realtà con lo sguardo di chi ne abita le periferie.
A Novembre nasce la Caritas Diocesana di Roma, da lui diretta fino al termine della sua vita. Pratica “una carità che tende a liberare le persone dal bisogno e quindi a renderle protagoniste della propria vita”. Non basta, quindi, limitarsi a interventi di tipo emergenziale. Occorre invece elaborare modelli innovativi di welfare, sostenuti da un’intensa attività di ricerca che lui considera essenziale. Il carattere innovativo e lungimirante dei servizi da lui creati ne fa ancora oggi un perno essenziale della rete sociale della città. Nascono centri di ascolto, ambulatori, centri di raccolta e distribuzione di medicinali, le mense e un ostello che oggi porta il suo nome. Il povero, secondo don Luigi, non è solo una questione del cristiano. Trattandosi non già di beneficenza ma di diritti, la questione deve investire le istituzioni, che lui non smette di sollecitare.
"La verità fondamentale del cristianesimo è che Gesù Cristo è nato in mezzo a noi, nella storia umana, nella vita umana, per poterla liberare. L’amore di Dio si è venuto per così dire a “sporcare le mani” nella nostra vita e nella nostra storia. Questo crediamo fermamente e questo esprimiamo con le opere che sono manifestazione e conseguenza della fede. Le opere ci vogliono perché senza di esse la fede diventa solo approfondimento e questo non basta a realizzare quella pienezza che si esprime nel servizio. La vita è salvata perché ci mettiamo al servizio degli altri. Questa è la grande testimonianza che possiamo e dobbiamo dare: siamo i testimoni viventi che Dio si è messo al servizio degli uomini.
Le opere senza la fede e la fede senza le opere sono tutte e due monche, perché separandole, le opere diventano mero attivismo e la fede diventa sterile".
Il discernimento è questa domanda: Signore, dove sei? Significa partire da certe situazioni particolari che vivono le persone, che vivono le comunità, situazioni che rivelano la presenza del male e la presenza del bene. Basterebbe questo per capire cosa è il discernimento: un impegno ad andare in profondità, ad entrare nell’intimo delle persone. E’ questa intimità dello Spirito che possiamo e dobbiamo cercare di raggiungere, per cogliere che cosa Lui ci suggerisce quando ci troviamo di fronte a certe situazioni davvero palpitanti, drammatiche, disperate. In situazioni come queste non è portando dei medicinali, o dei viveri, o pagando una bolletta a chi non ha i soldi per farlo che abbiamo risolto il problema delle persone, anche se non si può prescindere da queste necessità né possiamo dire: guarda che io mi interesso solo di cose spirituali. Dobbiamo continuare a fare tutto ciò che la carità ci suggerisce di fare, giudicando attraverso il discernimento, senza fare troppa separazione fra lo spirituale e il materiale.
Il discernimento ci dovrebbe portare a prendere contatto con queste realtà di sofferenza per chiederci quali sono, come si manifestano e dove. Queste realtà non basta conoscerle numericamente e genericamente: stiamo parlando di persone vive e perciò dobbiamo personalizzarle, individuarle e immedesimarci in ogni singola situazione vissuta, senza limitarci a parole di conforto astratte. Ecco allora il nostro interrogativo di fondo: come, attraverso il mio stile di vita, io posso sentirmi coinvolto nelle diverse sofferenze drammatiche dell’umanità, quelle che scopriamo dentro di noi, nella nostra città, fuori dalla nostra città? Non sono problematiche teoriche ma fatti e situazioni reali: le immigrazioni, i malati di mente, gli handicappati, i tossicodipendenti, i malati terminali, insomma tutti quegli spazi dove la sofferenza umana è più viva e che Dio incarnandosi assume in se stesso per liberarci dalla disperazione e dare un senso al dolore.
Il discernimento entra non nelle teorie ma nei fatti, nelle vite personali e negli eventi. Rappresenta un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di interpretare gli avvenimenti. Richiede la metodologia dell’ascolto. Non solo dell’ascolto degli altri, ma dell’ascolto di Dio negli altri. Allora il vero problema non è quello di stabilire se il povero sta dicendo o no la verità: il vero problema è piuttosto aiutare il povero ad accorgersi di Dio. E non intendo una verità puramente spirituale: Dio non è più spirituale da quando si è incarnato. Dio è quella persona che mi sta davanti. Allora attraverso il discernimento noi dovremmo entrare in contatto con questa verità per aiutare la gente ad accorgersi non di noi, non della Chiesa, ma del mistero che è già dentro ognuno di loro.