Sono Lisa, ho 67 anni. Mi sentivo molto sola dopo la morte del mio dottore e la chiusura del Centro Diurno dove avevo degli amici che mi capivano. Sono arrivata in Fondazione 5 anni fa, la mia famiglia mi diceva che avrei trovato una nuovi amici e che avrei recitato con loro nel laboratorio di teatro!
Mia sorella Maria era sempre con me, anche quando facevamo le prove. A volte mi capita di ritrovarmi in posti che non ricordo e di non capire dove sono.
Oggi Maria non viene più. Mi accompagna una volontaria della Fondazione ma rimane fuori ad aspettarmi. Voglio bene ai miei nuovi amici attori e mi fido di loro.
“Dicono: c’è uno psicologo. Ma io non sono matta, che vado dallo psicologo. Tu mi devi dire: vieni, io ti ascolto. Se vuoi pubblicizzarlo devi dire: c’è un posto dove ti ascoltiamo. È molto diverso, perché una persona vuole essere ascoltata, non curata”.
Aurora racconta così l’esperienza di “peer education” che conduce da un paio d’anni insieme agli altri studenti di due licei romani, il Seneca e il Dante. È un progetto nato dalla collaborazione tra il dipartimento di salute mentale della Asl Roma 1, la Fondazione Di Liegro e la Fondation d’Harcourt.
La “peer education” è una strategia di prevenzione e promozione della salute che si sta diffondendo in vari paesi. Studenti, docenti e psicologi lavorano insieme con l’obiettivo di aiutare i ragazzi a trovare un benessere psico-fisico e relazionale, fatto di autostima, fiducia, amicizia, senso di sicurezza. Quello che cercano, spesso senza averne una chiara cognizione, ma faticano a trovare nel gruppo, nella classe, nella scuola. Vincere il malessere che si vive nell’adolescenza è più facile se ad aiutarti sono tuoi coetanei, opportunamente formati. Ragazzi che condividono le tue esperienze. Diventano un po’ i tuoi tutor e ti avviano verso un percorso di sostegno psicologico.
Ogni settimana a scuola è aperto uno sportello di ascolto, con uno psicologo esperto di età evolutiva. Per prenotare un incontro c’è un foglio bianco su cui i ragazzi possono mettere anche un nickname, oppure solo un segno. Perché, spiega Sofia, ci si vergogna a chiedere un aiuto psicologico, davanti agli amici e anche in famiglia.
Per gli psicologi e i docenti il bilancio di questi due anni è decisamente positivo. I ragazzi che hanno partecipato al progetto sono cresciuti, maturati. Sono diventati molto più consapevoli su tematiche che li coinvolgono, come la cannabis, il fumo, l’alcool, il bullismo. Anche i loro comportamenti si sono modificati; sono più autonomi, più liberi, meno influenzabili da stimoli negativi che possono derivare dal gruppo dei coetanei.
Tutti concordano che è un’esperienza da proseguire e allargare ai genitori.
Questa è la storia di Linda. Nostra figlia ha 20 anni, è nata in Colombia e l’abbiamo adottata quando aveva 9 anni. Da bambina in famiglia i rapporti sono stati molto affettuosi, ma ben presto sono emerse difficoltà relazionali con i suoi pari. Si è sempre sentita “non accettata” e “rifiutata” dai compagni. Era molto esuberante e sembrava socievole, ma in realtà in sé covava tanta rabbia e senso di ribellione che sono esplosi con la crescita e l’adolescenza.
Partecipando al corso per volontari e familiari, siamo entrati in contatto umano con persone che, come nostra figlia, vivono un disagio mentale.
La famiglia di Linda
L’abbiamo aiutata con un supporto psicologico, poi anche con farmaci che la stabilizzassero nell’umore. Diventava però sempre più insofferente alle regole, astiosa verso la famiglia e i genitori, gli insegnanti, i compagni, il mondo. Ha lasciato la scuola al 3° anno del liceo e, a diciotto anni, ha deciso di “voltare pagina” e rifiutare tutto ciò che era stata. E’ rimasta fuori casa per mesi, ha frequentato ambienti degradati, alla ricerca di un qualcosa che desse un senso alla sua vita e alla sua infelicità.
Da quando ha “abbandonato” famiglia, scuola, supporto psicologico e medicine, non si è più impegnata in alcun tipo di progetto (studio, lavoro, hobby). La sua incostanza e variabilità d’umore le ha impedito di costruire alcunché. Da un anno circa frequenta un ragazzo con i suoi stessi problemi. Con lui ha creato un rapporto simbiotico. Stanno sempre insieme, senza fare nulla, senza amicizie, spesso in depressione. Questa stabilità affettiva però la contiene nei comportamenti e negli atteggiamenti più negativi.
La storia di Linda prosegue quando siamo venuti a conoscenza della Fondazione Di Liegro nell’autunno del 2017 attraverso un annuncio sulla free press cittadina. Negli anni precedenti avevamo avuto diversi contatti con i terapisti di nostra figlia e avevamo anche vissuto il percorso della terapia familiare, ma il dolore e l’ansia non ci facevano comprendere nel profondo la situazione reale. Nel 2016 nostra figlia ci era “scappata di mano” ed eravamo persi.
Abbiamo cominciato a seguire il corso per volontari e familiari di persone con disagi mentali, organizzato dalla Fondazione. Le spiegazioni di professionisti, psicologi e psichiatri, l’ascolto e il confronto con gli altri familiari ci hanno aperto una finestra su un mondo con cui eravamo stati a contatto, ma che non avevamo capito veramente. Concetti, parole-chiave, suggerimenti ricevuti in passato hanno acquisito per noi un diverso significato razionale ed emotivo, grazie alla Fondazione Di Liegro, Abbiamo guardato nostra figlia con occhi nuovi, con meno rabbia per tutto il dolore vissuto a causa sua. E’ stato un cambiamento lento che ci ha riavvicinato a lei.
La Fondazione Di Liegro ci ha permesso di frequentare un gruppo di auto-mutuo aiuto, ci ha fatto conoscere la terapia multi-familiare e ci ha dato anche l’opportunità di fare volontariato. Siamo entrati così in contatto umano con persone che, come nostra figlia, vivono un disagio mentale. Insieme a loro, nei laboratori della Fondazione, svolgiamo attività semplici ma significative come il canto, il disegno, il teatro o il cucito. Impariamo a conoscerli e a conoscerci meglio. Condividiamo il loro dolore e i loro desideri.
Negli ultimi mesi la storia di Linda si è evoluta: è riuscita a fare, di tanto in tanto, qualche piccolo lavoretto. Ora la sfida è quella dell’autonomia. Le abbiamo dato l’opportunità di vivere con il suo ragazzo per imparare a gestire una casa e il vivere quotidiano. La nostra speranza è che, crescendo, possa migliorare, avere delle motivazioni di vita e ritrovare un po’ di serenità.